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Che il primo termine (simulazione) e il secondo (computer) abbiano qualcosa
a che fare l'uno con l'altro è cosa nota a chiunque abbia un po'
di familiarità con il mondo degli usi del computer. Che il secondo
(computer) e il terzo (scuola) abbiano anch'essi qualcosa a che fare l'uno
con l'altro - o dovrebbero averla è cosa che da qualche anno si ripete
con così tanta frequenza e così ubiquamente che, oltre a essere
entrata nella testa di tutti, appare ormai cosa così ovvia da non
necessitare di alcuna spiegazione. Quello che invece non appare affatto
ovvio è che il primo termine (simulazione) e il terzo (scuola) abbiano
a che fare l'uno con
l'altro; anzi, semmai l'inverso: ma che cosa c'entra la simulazione con
la scuola?
E invece c'entra e molto, dato che la riguarda in ben due sensi che, sorprendentemente,
sono entrambi molto rivelatori: il primo senso, infatti, esprime realisticamente
lo stato attuale della scuola; il secondo esprime, invece, quello che potrebbe
essere - o meglio vorremmo che fosse - il suo stato, magari in un futuro
non troppo lontano. Esso rappresenta, inoltre, l'unico modo nel quale il
secondo e il terzo termine, computer e scuola,potrebbero realmente interagire,
al di là delle tante verniciature di facciata in cui purtroppo tende
a manifestarsi questo binomio. Vediamo perché.
simulazióne s. f. [dal lat. simulatio -onis, der. di simulare
"simulare"]. -
1. L'atto, il fatto di simulare; in partic., qualsiasi atto o atteggiamento
che tende a far sorgere in altri un falso giudizio: il suo dolore, o il
suo affetto, non è sincero, è solo s.; diffida delle sue
proteste: è sempre stato un maestro nella s.; questa è la
vera s., però che di sotto è altro che non si dimostra di
sopra (s. Bernardino). [voce da Il Vocabolario Treccani]
Questo è il primo senso, ed è anche il primo senso riportato
nel vocabolario. Vi fa venire nulla in mente questo senso della parola
"simulazione" quando lo riferiamo alla scuola? Sono sicuro di
sì: basterà scavare un po' nei propri personali ricordi
scolastici per trovare simulazioni di tutti i tipi. Ma qui ce ne interessa
particolarmente una: la simulazione dell'apprendimento. A scuola si simula
l'apprendimento delle conoscenze; questa simulazione ha anche un rituale
piuttosto elaborato: compiti a casa e in classe, interrogazioni, attribuzioni
millimetriche di voti. Insomma tutto ciò che serve a garantire
e certificare - se il rituale ha esito positivo - che l'acquisizione è
avvenuta. Ed è proprio qui che scatta la simulazione, perché
nella maggior parte dei casi non è avvenuto proprio nulla. Se si
fosse appreso, allora si dovrebbe sapere: se si prendono i due criteri
cardine che attestano l'esistenza del sapere qualcosa, e cioè,
che questo qualcosa sia stato capito e che, proprio per questo motivo,
lo si ritenga - perché lo si è "assimilato", come
si dice - è facile rendersi conto che quasi mai queste condizioni
sono soddisfatte per il sapere che si dovrebbe aver appreso a scuola.
Provate a chiedere a uno studente che "sa" la fisica in senso
scolasticamente certificato che
differenza c'è nel comportamento di un sasso che lascio andare
dalla finestra e un sasso che lancio, o quand'è che il sasso da
me lanciato raggiunge la sua massima velocità, e ne sentirete delle
belle. Oppure
provate a misurare la permanenza media di conoscenze di storia, letteratura,
geografia, in assenza di continui "ripassi" e, se non siete
professori di scuola, sarete sorpresi dalla brevità di questa durata.
Intendiamoci, tutto ciò non è dovuto alla perversione e
malvagità di studenti e docenti, ignobili simulatori: si tratta
piuttosto di simulazione "istituzionalizzata". La scuola non
può che operare così, poiché è disegnata
e strutturata in modo da produrre questo risultato, e, di conseguenza,
la simulazione viene mantenuta con il consenso - implicito o esplicito
- di tutti. Per lo meno fino al momento in cui la forza delle cose la
svela.
Quando, cioè, le conoscenze che si sarebbero acquisite sono veramente
richieste per essere usate: ad esempio, per svolgere compiti reali nel
mondodel lavoro (ma non solo in questo caso: si provi a richiamare, sempre
dal serbatoio scolastico, conoscenze utili a capire un paese straniero
o un monumento storico artistico quando lo si sta visitando, oppure quelle
di fisica dei gas e geografia astronomica per capire le argomentazioni
che tutte le sere ci propone il signore che prevede il tempo in televisione).
E allora giù con le lamentazioni sull'inadeguatezza, lo scollamento,
la necessità di cambiare. Il fatto è che si è disposti
a cambiare l'aspetto della simulazione, il "simulacro", si potrebbe
dire con un'altra parola che
significativamente condivide la stessa radice, ma non la simulazione stessa:il
fatto che si simuli. Bisogna infatti capire che per cambiare quest'ultimo
sarebbe necessario cambiare radicalmente la struttura stessa della scuola.
Ho già scritto e mostrato varie volte come la scuola sia organizzata
intorno a una certa modalità di apprendimento, quella che si chiama
"simbolico-ricostruttiva", a sua volta supportata da una certa
tecnologia, quella della stampa. Le conoscenze sono formulate in un testo,
vale a dire in un'estensione di linguaggio totalizzante e autosufficiente,
tipicamente incarnato nella forma-libro. Questo testo è composto
di simboli linguistici che vanno decodificati per ricostruire gli oggetti
e le situazioni cui essi si riferiscono: questa ricostruzione avviene
interamente nella mente e sempre nella mente si opera su di essa per elaborarla.
La scuola, invece, non prevede e non sfrutta affatto l'altra modalità
di apprendimento di cui disponiamo, quella chiamata "percettivo-motoria".
In questa non si opera sui simboli ma sulla realtà, e non si opera
all'interno della propria mente, ma all'esterno con la percezione e l'azione.
Si osservano fenomeni e comportamenti, si interviene con la propria azione
per modificarli, si osservano gli effetti della propria azione, si riprova
a intervenire, e così via. Si ripetono tipicamente cicli di percezione
e azione ciascuno operante sul risultato dell'altro: insomma si prova
e riprova. La conoscenza emerge da questo "fare esperienza".
Non posso in questa sede trattare del perché disponiamo di due
modi di apprendere, né di tutte le caratteristiche che li differenziano
rendendoli quasi opposti, e comunque non comunicanti. Quello che ci interessa
in questo contesto sono invece le grosse differenze nel risultato che
essi producono, per essere precisi nel modo in cui viene organizzato ciò
che abbiamo appreso, e quindi nel modo in cui possiamo avervi accesso
e utilizzarlo. Gli apprendimenti di origine esperienziale sono accessibili
quando servono realmente: quando cioè si presenta un contesto in
cui dobbiamo metterli in pratica; sono invece scarsamente accessibili
in astratto, al di fuori di ogni contesto: per esempio, quando qualcuno
ci domanda "come si fa?" oppure"come funziona?". E
per questo motivo sono anche difficilmente esprimibili a parole: la tipica
risposta a quelle domande è infatti "te lo faccio vedere".
Al contrario, gli apprendimenti di origine simbolico-ricostruttiva sono
facilmente esprimibili a parole, indipendentemente dal contesto; sono
invece molto più difficilmente applicabili a situazioni concrete
che richiedono l'uso, la messa in pratica di ciò che si è
appreso. La risposta alle stesse domande è, tipicamente, "te
lo dico", ma se devo utilizzare quelle conoscenze per un compito
concreto posso avere delle grosse difficoltà.
Correlata a questa differenza, c'è quella della stabilità.
Le conoscenze del primo tipo sono stabili, non decadono col tempo: è
sufficiente che si presenti il contesto adatto e facilmente "tornano
alla memoria". Al
contrario, le conoscenze del secondo tipo sono tendenzialmente instabili:
vengono facilmente "dimenticate" e, per mantenerle, è
necessario "ripassarle" periodicamente.
Qui è dunque l'origine di quella che abbiamo chiamato la "simulazione"
scolastica; naturalmente non basta solo questo: ci vuole anche che la
scuola e la sua modalità, nate in origine per imparare a "leggere,
scrivere e far di conto", e poco più, siano state mostruosamente
dilatate e estese a tutto ciò che poteva essere oggetto di apprendimento.
Ci si potrebbe domandare perché mai, a fronte di queste differenze
(e non solo queste, poiché l'apprendere esperienziale è
oltretutto più naturale, più motivante, meno faticoso, addirittura
piacevole) la scuola sia stata costruita e organizzata interamente intorno
all'apprendere simbolico ricostruttivo. Ancora più straordinario
è il fatto che, di contro, prima dell'avvento della scuola, la
trasmissione delle conoscenze avveniva quasi esclusivamente attraverso
l'apprendere esperienziale. Si tratta dell'antico "andare a bottega":
l'allievo apprendeva attraverso l'osservazione del fare altrui, e soprattutto,
il provare a fare. Questa duplice esperienza veniva guidata da un "maestro",
che non era un dispensatore di conoscenze, ma un esperto attivamente impegnato
egli stesso nel fare. L'apprendimento avveniva nel
contesto concreto di uso delle conoscenze stesse. Dunque, perché
cambia tutto ciò? Cambia per l'avvento di una straordinaria innovazione
tecnologica: dietro il cambiamento delle istituzioni umane c'è
sempre una
tecnologia di successo, anche se, quando è passato molto tempo
e latecnologia è antica, si tende a non vederla più. La
tecnologia della stampa a caratteri mobili, grazie alle sue caratteristiche
di riproducibilità rapida e illimitata e, soprattutto, a basso
costo, rese disponibile ovunquee a chiunque testi: vale a dire, estensioni
di linguaggio scritto.
Benché superiore da tutti i punti di vista, l'apprendimento esperienziale
hauna fortissima limitazione: perché possa verificarsi bisogna
che ci sia, appunto, esperienza - bisogna poter esperire e agire sull'universo
pertinente, e dunque essere in presenza, in contatto fisico con esso -
e bisogna essere in presenza e a contatto con un maestro. La disponibilità
effettiva di queste condizioni è riservata a pochi: pochi apprendono
bene, molti non apprendono affatto.
Supponiamo invece che si riesca a formulare linguisticamente queste conoscenze,
e in modo che questa formulazione sia completamente autosufficiente -
non abbia bisogno di alcun riferimento esterno - sia cioè
quello che abbiamo chiamato un "testo": non si avrà più
bisogno di fare esperienza, che verrà sostituita dalla ricostruzione
mentale. Né si avrà più bisogno di un maestro nel
senso adoperato precedentemente: semmai di qualcuno che aiuti a "interpretare"
il testo. Naturalmente non vi è alcun incentivo a fare ciò
finché un testo ha pressappoco la stessa disponibilità,
in termini di diffusione e costo, del posto in bottega, com'era appunto
prima dell'invenzione della stampa. Ma se invece questa disponibilità
cambia
enormemente - diciamo di un fattore cento o addirittura mille - l'incentivo
c'è, eccome. Le conoscenze a portata di tutti, almeno teoricamente.
Qui è la ragione fondamentale - fortemente "progressista"
- del cambiamento.
Purtroppo nulla si acquista gratis: per operare questo cambiamento bisogna
anche cambiare radicalmente il modo di apprendere, da quello esperienziale
a quello simbolico, e ciò conduce a quei risultati che abbiamo
illustrato e che durano ancora oggi. Ma è proprio oggi che, per
la prima volta, è possibile cambiare di nuovo questa situazione,
ed è possibile, come sempre, per via di un'altra grande innovazione
tecnologica che sta cominciando adesso a dispiegare i suoi effetti: l'introduzione
e la diffusione
generalizzata del personal computer. Il motivo è semplice: grazie
al computer è possibile tornare al vecchio modo di apprendere -
quello esperienziale - con tutti i vantaggi che esso comporta, senza le
limitazioni
che questo modo aveva e che ne hanno determinato lo schiacciamento a favore
di quello simbolico sorretto dalla stampa. E come? Qui entra, crucialmente,
l'altro senso della parola "simulazione":
simulazióne s. f. [dal lat. simulatio -onis, der. di simulare
"simulare"]. -
2. Nel linguaggio tecn. e scient., e in partic. nella teoria dei sistemi,ogni
procedimento atto a studiare il comportamento di un sistema in determinate
condizioni che si basi sulla riproduzione del sistema o
dell'ambiente in cui esso deve operare attraverso modelli (siano essi
meccanici, analogici, numerici, matematici o altro): per es., nella tecnica,
si può realizzare la simulazione della sequenza di montaggio di
un
dispositivo complesso utilizzando riproduzioni (in materiali più
leggeri oin scala ridotta) delle varie parti da assemblare... [da Il Vocabolario
Treccani]
L'espressione cruciale è "la riproduzione del sistema attraverso
modelli".
Perché può essere utile e vantaggiosa una simile riproduzione?
La risposta è semplice: perché ho bisogno di operare sul
sistema (ad esempio, per vedere come funziona in particolari circostanze
o per modificarlo, ecc) e, per una qualunque ragione, non posso operare
sul sistema reale. Ad esempio, perché è
molto costoso: se devo costruire un'automobile o un aereo per vedere come
sicomporta aerodinamicamente mi conviene costruire un modello che ne mantenga
le proprietà rilevanti, e quindi mi permetta di sperimentarne il
comportamento, e che costa molto meno. Oppure perché può
essere pericoloso:
se, ad esempio, si tratta di un nuovo sistema per spegnere incendi nei
pozzi di petrolio - materiali, procedimento, ecc - mi conviene certamente
costruire un modello in scala ed effettuare, appunto, una simulazione.
Può anche trattarsi del fatto che sul sistema reale si può
operare una sola
volta, ed è quindi cruciale non sbagliare l'operazione che si vuole
compiere: ad esempio, se devo montare un'apparecchiatura nello spazio
- un telescopio o un'antenna - devo essere sicuro che la procedura funzioni
bene e dia il risultato voluto la prima e unica volta che può essere
applicata. Mi conviene quindi, anche qui, costruire un modello e operare
una simulazione.
Quest'ultimo caso si presta anche a un altro uso altrettanto fondamentale:
far apprendere all'operatore, a colui che dovrà poi effettivamente
montare l'apparecchiatura nello spazio, la procedura stessa. Di fatto,
anzi, gran parte dei modelli e delle simulazioni sono costruiti proprio
per far
apprendere: anche la simulazione della tecnica e procedura di spegnimento
di un incendio appena citata può essere effettuata per insegnare
agli operatori come eseguirla correttamente e senza rischi. Esaminiamo
ora un momento come funziona quest'apprendimento: imparo facendo. Opero
sul modello con la mia
azione, il modello reagisce, osservo il risultato, su questa base effettuo
l'azione successiva: o andando avanti, se il risultato osservato è
conforme alla mia aspettativa, oppure correggendo l'azione che ho fatto,
se il risultato non è soddisfacente, e così via. Provo e
riprovo; probabilmente
interverrà anche un "maestro": qualcuno che mi farà
vedere come si fa o che orienterà e correggerà opportunamente
la mia azione. Alla fine di questo processo avrò imparato: prima
non sapevo né com'era fatta, né come si montava un'antenna,
adesso lo so. Dovrebbe essere evidente come questa
descrizione corrisponda perfettamente a quello che abbiamo chiamato "apprendere
esperienziale".
Anzi, se qualcuno non fosse stato convinto dal nostro discorso precedente,
proprio questi esempi mostrano la superiorità dell'apprendimento
esperienziale rispetto a quello simbolico. Quando vogliamo essere sicuri
che
la conoscenza sia veramente acquisita e che la si sappia applicare nel
contesto reale in cui è necessaria, ci fidiamo solo di questo tipo
di apprendimento. Certo, perché per insegnare queste cose potremmo
benissimo
utilizzare il modo simbolico-ricostruttivo: anziché costruire un
modello e effettuare simulazioni potremmo consegnare a colui che deve
apprendere un bel "manuale di istruzioni", e cioè un
testo e farglielo "studiare", così come si fa a scuola.
Ma quello che maggiormente ci interessa qui è che, come abbiamo
visto da questi esempi, la simulazione costituisce un modo per apprendere
esperienzialmente anche quando non si ha a disposizione la realtà
su cui
fare esperienza e operare. La simulazione è quindi un modo, almeno
in linea di principio, per rimuovere quei limiti di presenza e contatto
fisico che rendono l'apprendimento esperienziale accessibile a pochi.
Invece di
lavorare sulla realtà, lavoro su modelli, che, sempre in linea
di principio,possono essere replicati e resi accessibili ovunque. Il problema
è che, fino ad oggi, la costruzione di modelli ben funzionanti
per poter simulare la realtà è stata anch'essa un'impresa
abbastanza difficile e costosa: per questo è stata applicata solo
a quei casi abbastanza estremi del tipo di quelli che abbiamo in precedenza
esemplificato.
Supponiamo, invece, che io possa facilmente costruire modelli di questo
tipoper i più svariati settori, che disponga cioè di un
costruttore di modelli "generale" e che per di più questi
modelli siano facilmente riproducibili, trasportabili e diffondibili ovunque
a costi relativamente bassi. Supponiamo inoltre che questi modelli possano
incorporare una certa "intelligenza" e cioè che non solo
reagiscano meccanicamente alla mia azione comportandosi di conseguenza
ma che siano anche in grado di "commentarla", indicandomi se
ho eseguito l'azione giusta o suggerendomi l'azione da fare in una certa
circostanza, e magari mostrandomela: in una parola, che incorporino anche
la funzione di un "maestro" esperto. Non sarebbe allora possibile
pensare a generalizzare ovunque la modalità di apprendimento esperienziale,
né più e né meno di come la possibilità di
riprodurre facilmente e a basso costo qualunque testo ha generalizzato
la modalità di apprendimento simbolico?
Bene, questa possibilità esiste concretamente poiché esiste
ormai la tecnologia che la supporta: si tratta della simulazione gestita
dal computer. La simulazione gestita dal computer libera la costruzione
dei
modelli dalla materialità e quindi permette di generalizzarla a
ogni campo - non devo fisicamente fabbricare i pezzi, li "simulo"
al computer. Siccome, poi, il computer è una macchina inerentemente
interattiva - una macchina che risponde in base alle azioni che io compio
- è in grado di far svolgere perfettamente i cicli di osservazione-azione
che caratterizzano il lavoro esperienziale con i modelli. Infine può
benissimo incorporare
quell'intelligenza - che nella fattispecie va sotto il nome di "intelligenza
artificiale" - che le consente di svolgere il ruolo di "maestro".
Il tutto è incorporato in un programma del quale si possono fare
infinite "copie" a costo irrisorio che possono essere diffuse
ovunque con facilità.
La simulazione gestita dal computer può essere la nuova bottega
completa di maestro, che ha però le caratteristiche di "massa"
che erano tipiche della stampa. E non si tratta affatto di una possibilità
teorica, la cui realizzazione va messa in cantiere: di questi "simulatori",
con tutte le caratteristiche che abbiamo descritto, ne esistono già;
sono alla portata di tutti e, se avete un figlio "computerizzato"
in età adolescenziale o giovanile, ne avete probabilmente già
qualcuno in casa. Già, perché c'è un terzo e ultimo
senso della parola "simulazione", strettamente connesso al secondo,
come dice lo stesso dizionario:
simulazióne s. f. [dal lat. simulatio -onis, der. di simulare
"simulare"]. -
3. Con sign. analogo, giochi di s., tipo di giochi da tavola che, ricostruendo
su un grande tavoliere di cartone le condizioni effettive in cui si sono
svolti o si possono svolgere particolari avvenimenti o situazioni (per
es., una battaglia, il gioco in borsa, la speculazione edilizia) e basandosi
solo in parte sul fattore aleatorio (determinato, per es., dal lancio
di un dado o dall'estrazione di carte con indicazioni prescrittive), mirano
a far risaltare le capacità strategiche o, in altri casi, diplomatiche,
dei giocatori, mettendo loro a disposizione, sotto forma di pedine contrassegnate
da simboli varî, i mezzi, gli strumenti proprî di quella determinata
situazione e con caratteristiche corrispondenti a quelle reali (per es.,
nei giochi di guerra, i mezzi di rifornimento e i varî tipi di armi).[da
Il Vocabolario Treccani].
In realtà questa voce è un po' "arcaica", perché
parla di giochi da tavola: ormai i giochi di simulazione per eccellenza
sono quelli elettronici, costruiti sul computer, dove è possibile
approssimare la "corrispondenza
alla realtà" a ben altri livelli. Bene, sedetevi al computer
di vostro figlio e "caricate" uno di questi giochi: per esempio,
un simulatore "gestionale". Potreste allora ritrovarvi a capo
di un'impresa che deve costruire e gestire le ferrovie di un intero paese.
Avrete a che fare con progettisti, appaltatori, ambientalisti, banche,
finanziatori, sindacati, amministratori nazionali e locali che rispondono
alle vostre richieste e alle vostre "mosse". Dovrete elaborare
strategie che vi consentano di non fallire e, sperabilmente, di progredire:
nel fare questo imparerete - sulla vostra pelle - che cosa sono e come
funzionano cose come costi, investimenti, profitti, indebitamenti, interessi,
e così via.
Allo stesso modo, e con uno sforzo non particolarmente impegnativo, si
potrebbero costruire giochi tramite i quali imparare i principi della
dinamica o dell'elettromagnetismo, giacché "giocare"
in questo senso non è
altro che sinonimo di "imparare", così come lo è
per il bambino piccolo che "giocando" dalla mattina alla sera
impara come è fatto il mondo.
Resta una sola, fondamentale domanda: si potrà mai giocare a scuola?
Se non ci si riuscirà, se la scuola non si metterà seriamente
a giocare, il computer a scuola farà la fine dei "sussidi
audiovisivi" - e in genere di tutte le tecnologie che hanno invano
bussato al portone dell'edificio scolastico - relegato in apposita "aula
informatica" come utile (a chi?) complemento della didattica fondamentale
(e, naturalmente, tradizionale). O,
al massimo, se avrà fortuna, sarà un mezzo più complicato
e scomodo per leggere e scrivere testi.
Francesco Antinucci' è direttore del reparto Processi cognitivi
e nuove tecnologie dell'istituto di Psicologia del Cnr. Si occupa di processi
di elaborazione, comunicazione e apprendimento delle conoscenze, in relazione
all'uso delle nuove
tecnologie interattive. In quest'ambito, ha progettato e diretto la realizzazione
di sistemi ipermediali e di realtà virtuale. Tra le sue più
recenti pubblicazioni, Computer per un figlio (1999) e La scuola s'è
rotta
(2001), entrambi pubblicati da Laterza.
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