Roberto Maragliano | |||||||||
Considerazioni su saperi e media Ritengo che vada tenuto presente il quadro generale entro il quale si colloca l’attuale sforzo di riqualificare i contenuti e le modalità dell’insegnamento scolastico. |
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Tra i molti aspetti che occorrerebbe prendere in considerazione, tre mi sembrano di assoluto rilievo: non solo perché rimandano a processi in corso alla cui evidenza è impossibile sottrarsi, indipendentemente dalle posizioni che si hanno riguardo il cambiamento scolastico su cui si è legiferato, ma anche perché hanno rilevanti effetti sulla "materia prima" dell’azione scolastica, gli allievi e le loro famiglie da una parte, gli insegnanti dall’altra e quindi sul ruolo che gli uni e gli altri potranno assumere all’interno della scuola riformata. Essi sono:
Per ciascuno di questi settori, e nei riguardi delle caratteristiche dei processi in corso, sarebbe improduttivo dividersi tra "collaborazionisti" e "catastrofisti", essendo nella natura stessa di tali trasformazioni il fatto di presentare contemporaneamente due facce, una indissociabile dall’altra: quella che i primi consacrano e quella che i secondi esecrano. Né ha senso una posizione di (impossibile) neutralità. Si tratta dunque di mettere in campo, nel foro di ciascuno di noi, i due poli dialettici rappresentati dagli estremi del collaborazionismo e del catastrofismo. Una cosa è comunque certa, e voglio ribadirla, qui: processi di tale portata incidono sulla vita esteriore e interiore di grande masse di giovani e adulti, ed inevitabilmente producono forti risonanze nei loro modi di rappresentarsi la conoscenza, l’esperienza, la cultura, la stessa formazione. Costituiscono in altri termini la cornice entro la quale, lo si voglia o no, la scuola è giorno per giorno edificata, pensata, agita. Con questi macrofenomeni essa dunque si trova ad interagire, come non le è mai capitato di fare, nella storia che ha alle spalle. Ma questa interazione, io credo, non può essere affidata solo a movimenti locali, a risposte di settore. Certo, anche queste azioni sono necessarie, ma non bastano. Cosa intendo dire? Che non è sufficiente trovare, dentro l’enciclopedia scolastica, un posto per aree come "intercultura", "economia", "tecnologia" e pensare che così agendo si sia data una risposta a tali problemi. Certo, questo va fatto, e nel migliore dei modi. Ma, ribadisco, un’azione di questo tipo non basta, anzi può perfino risultare dannosa, se tutto il resto dell’impianto culturale (e per così dire ‘antropologico’) della scuola resta come prima, e quindi se (usando una formuletta pedagogica che finché agisce come tale sconfina nella retorica, mentre se viene presa sul serio e messa in pratica ti cambia tutta la scuola sotto i piedi!) continua a prevalere un pensiero di tipo dichiarativo/espositivo, con spazi limitatissimi concessi ad un pensiero di tipo operativo/collaborativi, uno stile cognitivo e socio-affettivo necessario, quest’ultimo, per far entrare adeguatamente in circolo i contenuti "veri" dell’intercultura, dell’economia, della tecnologia. Al contrario, se fatte bene, queste iniezioni, cioè come nucleo generativo di una più elevata consapevolezza epistemologica, contribuiranno a rinvigorire (o, come avverrebbe nella maggior parte dei casi, a far nascere) il parametro operativo/collaborativo anche negli altri settori culturali, quelli più tradizionali, scolasticamente parlando, e ad ampliare gli effetti di un processo che ha già dato significativi risultati, per esempio nel settore delle lingue straniere. Il quale settore (didattico e non solo) è andato cambiando, nel giro degli ultimi decenni, al di là e al di qua delle riforme scolastiche, come nessun altro settore. Tuttavia, il parametro dell’operatività, io credo, non dovrebbe entrare in un rapporto di contrasto con quello tradizionale, e quindi lottare per la supremazia: se così fosse e se malauguratemente si affermasse, la scuola perderebbe una componente importantissima della sua identità, quella che la fa un luogo di riproduzione/condivisione del pensiero caratterizzato da libertà, indipendenza, autonomia. No, deve interloquire con quello dichiarativo/espositivo, vale a dire con il parametro che fin qui ha avuto un ruolo pressoché esclusivo, nell’ambito della scuola. Interagendo, ridimensionerebbe quello e se stesso. Sul piano più generale, la presa in carico di questi elementi dovrebbe portare ad un ripensamento (da effettuare nei tempi e nei modi adeguati, ma non scindibile, nelle scadenze più significative, dagli esiti delle tappe di attuazione della riforma dei cicli) dell’intero territorio culturale della scuola, sia sul versante dei contenuti sia su quello delle azioni didattiche, in coerenza con quanto sta avvenendo (se pur tra difficoltà e resistenze) sul versante universitario. In tale prospettiva, provo qui ad individuare alcuni nodi che la definizione dell’impianto culturale e didattico della nuova scuola dei cicli deve saper affrontare (se non oggi, in una prospettiva a medio periodo; ma decidendo adesso di non volerli escludere, al contrario facendo in modo che le scuole, nella loro autonomia, possano affrontarli):
Su quest’ultimo aspetto, che è quello di cui mi occupo professionalmente, vorrei aggiungere qualcosa, se non altro in difesa della legittimità di un atteggiamento (che vorrebbe essere il mio) né miracolistico né scientistico nei confronti dei mezzi, ma caratterizzato dall’istanza di percepire/analizzare il loro agire fuori e dentro il contesto formativo (tra parentesi, appunto: chi sia interessato a questi temi è automaticamente invitato a seguire e prender parte alla versione on line o totalmente open del mio corso universitario di quest’anno, dedicato a McLuhan e l’oggi, intendendo per oggi il Grande Fratello, la riforma dei cicli, ecc.: vada alla sezione Diario di Bordo 2000/1 del corso istituzionale Tecnologie dell’Istruzione del sito: http://LTAonline.cjb.net) Il fatto che io mi occupi di computer e multimedialità, e che lo faccia cercando di individuare soprattutto quel che l’uno e l’altra sono non in una condizione di cattività ma nella loro condizione più naturale, che cioè io intenda proporre un punto di vista etologico e non ecologico sui nuovi media (punto di vista, quest’ultimo, che invece è gradito a chi proietta sull’ossessione del nuovo mezzo l’ossessione inconscia che subisce da parte del vecchio) mi ha attirato molti strali, anche per l’esposizione pubblica procuratami dall’esser stato, moi malgré, coordinatore della cosiddetta "commissione dei saggi" istituita dal ministro Berlinguer (1997) e successivamente membro dei gruppo dei "saggini" (1998). Di fatto, molti critici hanno giocato a far coincidere le mie idee con quelle incastonate nei documenti prodotti dalle due commissioni, dei quali, mi sembra opportuno sottolineare, quello del 1997 porta la mia sola firma, mentre l’altro del 1998 ne porta altre cinque, tutte di degnissime persone. Il mio sforzo in questi due ambiti di impegno è stato di essere il più possibile tramite e interprete di un confronto collettivo (effettuato tra una trentina di "saggi" prima, e dentro un quinto di essi dopo). Non spetta a me dire se ci sia riuscito o no. Comunque mi consola l’aver potuto offrire agli "esterni" tutto il materiale utile perché potessero farsi un’idea in proposito (di quale altra commissione ministeriale è stato mai reso pubblico, due giorni dopo la sua conclusione, l’intero archivio del materiale prodotto e del confronto interno effettuato? Chi si fosse perso l’Ipertesto dei saggi non ha che da girare in Internet oppure ricorrere al cd-rom allegato al mio Nuovo manuale di didattica multimediale, Laterza, 1998). Ma non è questo il problema. Sta di fatto che molti critici, forse perché offesi dal mio punto di vista etologico sui media (lo ripeto: significa cercare di vedere i dispositivi tecnologici, ivi compreso il libro a stampa, per quel che sono, senza demonizzarli o consacrarli preventivamente), si sono sentiti autorizzati ad attribuire ai saggi l’incapacità di reagire alle maraglianesche "pagliacciate" (il termine circense è di un autorevole accademico dell’ateneo fiorentino, il quale, nemmeno riconoscendomi il diritto di avere un nome e un cognome, mi gratifica pure del massimo insulto di "pedagogista") e a fare del loro discutibile (= da poter essere discusso) esercizio sapienziale niente più che la cornice massmediale per il provocatorio giocherello di uno sciocco "epistemologo del videogioco", pedagogista di corte; con ciò sottraendosi, in qualità di apocalittici ma assai poco critici, a quello che era l’invito principale dell’intera operazione, cioè far maturare un confronto, e dando per buon peso dello sciocco sia ad una compagnia di volonterose e generose persone sia a quanti, nella scuola e fuori di essa, avevano preso per buono l’invito alla discussione. Mi sento autorizzato a sostenere che questo atteggiamento, non di analisi critica ma di rifiuto ad accettare la discussione, si sia maggiormente concentrato ai livelli alti dell’edificio scolastico e che questo non lo si potesse evitare (certo, ci si poteva preparare meglio a rispondere!), considerato che l’intento di provare a ridisegnare la mappa dei saperi colpiva (e colpisce, se qualcuno considera lo spirito del progetto tuttora in vita) in primo luogo il valore paradigmatico che ancora molti riconoscono alla scuola liceale, e il suo ergersi a modello indiscutibile di forma e sostanza educativa. Il problema che qui intendo sollevare va però al di là dei confini di una polemica personale, o degli aloni propri di un avvenimento ormai definitivamente consegnato ai lavori del cronachista scolastico. Esso riguarda l’alibi che i media, o meglio, che il punto di vista ecologico sui nuovi media offre a chi vuole sottrarsi ad un confronto sul sapere. Nella discussione berlingueriana sui saperi si è cercato non tanto di avviare la scrittura di nuovi programmi didattici quanto far maturare idee capaci di ridefinire l’ossatura, l’organatura, l’articolazione dei curricoli materiali di una scuola in via di trasformazione. Evidentemente, non si è riusciti in questo intento, e le ragioni di questo mancato raggiungimento vanno individuate attraverso un’analisi che non può essere soltanto politica, ma si deve aprire a molte altre dimensioni: antropologica, psicologica, ideologica, mediologica. Dal mio punto di vista, dopo questa ulteriore prova, permane l’esigenza di riflettere attorno all’alibi offerto dal giudizio corrente sui media (costituzionalmente apocalittico nei confronti dei new media) e quindi alla comoda fuga dalle responsabilità di confronto sul mondo e sui mondi che esso consente. Una cosa così capita non solo in ambito scolastico e non oggi per la prima volta: se c’è un fatto drammatico o luttuoso che riguarda bambini è impossibile che non venga ipotizzata la responsabilità della televisione e adesso dei videogiochi, se si parla di pedofilia a quasi tutti viene la rima non tanto con ipocrisia (che, guarda un po’!, fa rima anche con pedagogia) quanto con Internet-mania, se si vuole giocare il ruolo dei tolleranti ci si adagia sullo schema sì-ma-con-giudizio, e, ovviamente, se uno non sa di geografia o matematica o lingua è perché ha troppe distrazioni, alternative, diavolerie attorno, se non sa calcolare o scrivere o leggere è perché le macchinette lo hanno impigrito e via autorevolmente cianciando. Se non ci fosse tv e computer e Internet, mi vien di pensare, qualcuno dovrebbe inventarli, per la comodità di tutti noi! Quando invece tv e computer e rete dovrebbero esser visti e interpretati e usati (insomma "riflessi") come specchi di parti di noi stessi, così come lo sono il libro a stampa e il telefono: proiezioni all’esterno e amplificazioni/prolungamenti di movimenti interni. Il che equivale ad ammettere che una critica ai new media (nel senso di analisi critica, quindi in quel senso che è concentrato dentro l’espressione "critica d’arte") non dovrebbe prescindere da un impegno analogo nei confronti degli old media. A quando questo confronto? O pensiamo invece di averlo risolto mettendo qualche computer in più dentro la gabbia dei laboratori informatici?
di Roberto Maragliano, Università Roma Tre |