Abbigliamento

La moda obbligatoria del ‘45

La povertà del dopoguerra ci fa riflettere sul benessere di cui godiamo al giorno d‘oggi nei paesi industrializzati. Una cosa assurda era che i bambini erano costretti ad indossare tutti i sabati una divisa molto elegante, da figlio della lupa o da balilla, di seta, tutto il contrario degli abiti che indossavano durante la settimana. Tutto questo secondo noi, serviva a spingere all’arruolamento dei giovani nell’’esercito di Mussolini. Noi al posto loro saremmo stati contrari a questa costrizione perché le persone, i bambini soprattutto, devono essere liberi di decidere del proprio futuro.
In quel periodo vigeva il regime dell’autarchia, cioè l’Italia non poteva assolutamente importare materie prime dall’estero e quindi doveva produrle creando dei surrogati. Tutto questo ha portato ad una qualità degli abiti e delle calzature che lasciava a desiderare, facendo vivere il periodo di guerra agli italiani peggio di come avrebbero potuto viverlo altrimenti.
E’ incredibile per noi pensare che un bambino doveva aspettare la prima comunione per avere un vestito nuovo, quando noi ne possediamo tantissimi! Pensare che al giorno d’oggi ci sono ancora molte guerre e le popolazioni vivono in brutte condizioni!

Ma ci hanno raccontato anche questo:

Balilla e figli della lupa

...Mi è tornata in mente la divisa che avevamo quando facevamo ginnastica, al tempo dell’era fascista. Noi avevamo una divisa, io ero piccolina, ero una “figlia della lupa”, si chiamavano così: avevo una gonnellina nera di seta, calze bianche con le scarpine di vernice nera, una camicia bianca con una fascia che attraversava la spalla così, con la “M” di Mussolini incastrata dentro, il berrettino di seta nero e i guanti bianchi. Era una divisa bellissima! Poi c’erano le “giovani italiane”.
Invece il ragazzo era “balilla”, no prima era “figlio della lupa”, i più piccoli, poi “balilla”, poi “balilla moschettiere” poi “avanguardista” e poi andavano al soldato. Praticamente tutti i bambini dai sei anni in poi, avevano a casa una divisa. Sì, sì. C’erano le giovani italiane, poi c’erano i moschettieri, i balilla moschettieri, perché avevano il fucile. Sì, gli avanguardisti, poi c’erano i pre-militari, quelli dell’età dell’adolescenza. Avevano pantaloncini corti, col berrettino in testa, il fiocco su, erano dei veri e propri saggi, saggi ginnici.
Proprio giusto, proprio così.
La divisa da balilla era con un paio di pantaloncini grigio-verde, avevamo una camicia nera, la classica camicia nera, il fez, cioè un cappellino con delle frange laterali, poi avevamo un fazzoletto blu legato al collo che facevamo passare dagli alamari della camicia, sotto, e sul fazzoletto blu un grosso medaglione con la testa di Mussolini.


1935 Una formazione di figli della lupa a Roma foto: anonimo / farabolafoto

L'autarchia

Di una cosa importante non abbiamo parlato: durante la guerra c’era il regime dell’autarchia, cioé tutto il popolo italiano doveva essere autosufficiente e doveva produrre tutto quello che serviva, dal vestiario alle calzature, al mangiare. Allora succedeva che non importando, i prodotti scarseggiavano ed erano fatti con della roba non buona, duravano poco. I vestiti, le scarpe non duravano niente, perché erano fatti con della roba di seconda mano, roba scadente. L’autarchia ha portato appunto quella cosa lì, che durante la guerra siamo stati anche peggio di come saremmo potuti stare, appunto perché avevamo solo della roba che non valeva niente.”

La lana dal latte e le scarpe di legno

“Ci si vestiva male. La lana era quasi inesistente, a meno che uno avesse il suo gregge in certi punti, ma la lana non esisteva, avevamo dei prodotti autarchici che li chiamavano “lanital”, era un prodotto fatto con la lana fatta dal latte. Insomma, avevamo dei surrogati che venivano fatti chimicamente, quindi immaginiamoci durante l’inverno quanto calore potevano distribuire sul corpo, perché erano tutte delle sostanze che erano povere di calore. E poi quello che avevano di brutto ‘sti vestiti, erano anche poveri come durata perché dovevamo starci tutto il tempo. A parte il fatto che io mi ricordo di cappotti rivoltati, di scarpe che non esistevano, perché io mi ricordo fino a una certa età sono sempre andato avanti d’estate con gli zoccoletti nei piedi e d’inverno con gli zoccoli. Questi zoccoli per farli durare gli mettevano i cosiddetti “ciapin”, “ciapin” li chiamavano, li mettevano ai lati e in punta, gli mettevano dei pezzi di ferro e quelli duravano finché magari, dando un calcio a una pietra, giocando a pallone, si spaccava e allora si rifaceva la suola. Con dei chiodi inchiodati sopra, c’erano delle suole di legno, come delle borchie, eh, sì.


Asia 1946: II G
uerra mondiale - Piccolo profugo giapponese aspetta di essere rimpatriato

Le scarpe "rinforzate" e i pantaloni corti anche d'inverno

"Io mi ricordo che alle scarpe portavo dietro al tallone, come l’asino, il ferro di cavallo proprio e davanti aveva una spunta, la chiamavamo “la spunta delle scarpe”. Prendeva oltre due dita sotto il piede e poi il davanti rivoltato ancora, perché se davi un calcio da qualche parte la scarpa non si doveva rovinare perché c’era il metallo. Scarpe, parlo, da passeggio! Perché poi si consumavano. Come si consumava quel ferro di cavallo, si portava subito dal calzolaio, toglieva quel ferro lì e metteva il ferro nuovo.La differenza c’è sempre stata sulle scarpe. Le calze sempre corte. Usavano i pantaloni corti, mai quelli lunghi.
La prima volta che io ho messo il pantalone lungo è stato quando ho fatto la prima comunione. Eh sì, perché quando mi sono messo questo pantalone lungo, il giorno della comunione tutto bene; però dopo mia madre questo pantalone me lo faceva ancora mettere, e tutti i miei amici, perché allora si portavano sempre i pantaloni corti, mi dicevano: “Guarda lì, lungo e piccirill”, cioè io ero piccolo e portavi i pantaloni lunghi. Mi prendevano anche in giro.

Portavamo i pantaloni corti anche d’inverno, perché se ci buttavamo per terra si rompevano i pantaloni lunghi, allora il pantalone corto durava di più. No, no, era meglio rompersi il ginocchio e non il pantalone.

La lunga vita del cappotto

Dopo il pantalone corto era di moda il pantalone alla zuava. I vestiti erano usati e poi passati da fratello più grande a fratello più piccolo. E fatti e rivoltati e rifatti. Una volta c’erano le sartine, c’era tanta gente che si aggiustava con l’ago, con il cucito lavoravano tanto. E c’erano le amiche della mamma che riuscivano in un modo o nell’altro a far durare questo capo d’abbigliamento magari per due, tre anni. La più piccola, poverina, era quella che ci rimetteva sempre perché portava il cappotto della più vecchia. I maschi portavano ancora la mantellina. Non c’era la roba confezionata. Quando un cappotto era vecchio si rigirava e se ne faceva uno nuovo. Possiamo dire che un bambino aveva il suo primo vestito nuovo quando faceva la prima comunione. Prima portava sempre la roba del fratello più vecchio.”


1933 F
iglio di uno dei partecipanti ad un raduno di camicie nere a Roma
foto: anonimo / farabolafoto

Il guardaroba disoccupato

“Più delle cinture si usava lo spago. Io sono andato avanti per anni con lo spago che mi teneva su i pantaloni, le cinture ho aspettato un po’ a metterle.
Non avevamo tanti vestiti. C’era magari uno o due per l’inverno.
Un vestito doveva durare. Quello bello lo mettevi la domenica e uno per andare a scuola. Li lavava sempre la mamma il sabato per andare di nuovo il lunedì, e quello che mettevi la domenica si lavava per la domenica dopo. Uno doveva durare per una settimana. Ne avevamo due: uno per andare a scuola e uno per la domenica per uscire. Io avevo un pantalone che mia madre lavava la sera e lo rimettevo la mattina, mica ne avevo più!
Il papà metteva abiti nuovi quando andava la domenica a messa; ma durante la settimana si metteva dei pantaloni che tu non li useresti neanche come stracci, eran pieni di toppe, tutta la settimana coi pantaloni con le toppe, perché usavano i pantaloni vecchi di qualsiasi colore, non è che uno diceva “mi faccio la toppa grigia sull’abito grigio”, no, no, c’era la toppa nera, di tutti i colori.Tutta la settimana con le toppe e gli zoccoli nei piedi.

Quando un vestito era vecchio si buttava! O lo si portava dal sarto e c’era la possibilità di rigirarlo una terza volta. Questo non era perché non c’erano delle possibilità, era perché non c’era la roba, non c’era niente, c’era l’autarchia.
Capite perché non c’era il povero o il ricco, perché erano tutti alla stessa portata. Non essendoci le materie prime, non essendoci niente, dovevi adattarti con quello che avevi; ma non perché uno è più povero allora vestiva così, l’altro perché è ricco, no, no.
Era per tutti uguale! ...

Abbigliamento